Archivi tag: Distopie e Apocalissi Italiane

Massimiliano Santarossa – Metropoli

Questo articolo è stato scritto originariamente l’27 maggio 2015 e oggi – maggio 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Sarò poco originale, ma anch’io non posso fare a meno di sostenere, come hanno fatto altri recensori, che questo romanzo deve molto, moltissimo ai classici distopici della prima metà del secolo scorso: ZamjatinHuxleyOrwell e, poco dopo il 1950, Bradbury. Non solo: durante la lettura ho colto evidenti richiami alla fantascienza sociologica degli anni 60/70, alla Herry Harrison per intenderci, con chiari riferimenti ad alcune tematiche affrontate nel romanzo Largo! Largo!, dal quale è stato tratto il film cult con Charlton Heston2022: I sopravvissuti“. Ipotizzo che Massimiliano Santarossa, l’ottimo autore di questo Metropoli, per la stesura del suo romanzo abbia attinto più o meno consapevolmente dal ricordo che conservava del film suddetto.
Vale la pena riassumere subito la storia. A seguito di un catastrofico e più volte citato collasso produttivo – una sorta di evoluzione iperbolica dell’attuale crisi economica – il mondo è piombato in un’irreversibile dissesto ambientale, economico e sociale. La temperatura media del pianeta è crollata, gli stati e le istituzioni sono collassati, la maggior parte delle specie viventi estinte. Sopravvivono nella miseria e nella barbarie pochi esseri umani, tormentati dal freddo e dalla fame.
L’unica speranza per chi prova a sopravvivere consiste nel tentare di raggiungere la città fortificata di Metropoli. Continua a leggere

Mauro Corona – La Fine del Mondo Storto

Questo articolo è stato scritto originariamente l’8 dicembre 2010 e oggi – maggio 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Con La Fine del Mondo Storto di Mauro Corona non abbiamo a che fare con un romanzo vero e proprio, e neanche con un saggio. Quella che ci racconta lo scrittore è invece una bella fiaba, priva del classico lieto fine. Il tema apocalittico (il solito tema apocalittico, verrebbe da dire, tanto caro agli scrittori mainstream), è stato sviluppato da Corona senza l’ausilio di rigorosi studi scientifici, analisi sociologiche o proiezioni storiografiche.

Semplicemente, Corona immagina che un giorno, d’improvviso, i combustibili fossili spariranno dalla faccia della Terra, con tutte le conseguenze nefaste del caso. Il tema era già stato trattato dal celebre scrittore/alpinista qualche anno prima, in forma di racconto, e pubblicato nelle pagine culturali de La Repubblica.
Corona auspica un ritorno dell’uomo alla natura, sennonché è proprio la natura, in questo caso quella umana, ad apparire inesorabilmente votata all’autodistruzione.

Il libro è privo di protagonisti veri e propri, i dialoghi sono rari e non esiste un unico filo conduttore, un plot, che leghi le tante vicende narrate dall’autore. Semplicemente, si tratta della cronistoria di tutto quello che accadrà quando mancherà l’energia elettrica, si spegneranno le luci, e l’uomo non saprà più come fare per riscaldarsi e sfamarsi. I sopravvissuti dovranno pertanto imparare a procurarsi il cibo, piantare un orto, seminare i campi, accendere e mantenere vivo un fuoco. E dovranno farlo con la giusta umiltà, e con il rispetto dovuto a chi può trasmettere tutti questi insegnamenti. I furbi e gli approfittatori, manco a dirlo, non fanno una bella fine.

Ovviamente lo sguardo che Corona rivolge al futuro deriva dalla sua visione politica, il che è evidente nella descrizione di certi personaggi che paiono ispirati ad alcune figure istituzionali e imprenditoriali del nostro presente facilmente identificabili. Così come chiaro e inequivocabile è il giudizio che ne dà l’autore, che tuttavia non si limita a criticare tali figure, ma estende le sue valutazioni verso intere categorie sociali. Corona ne ha per tutti: giornalisti, ingegneri, padroni e tecnocrati, e nel farci capire quale considerazione abbia di questi individui è decisamente schietto, come ci si aspetta da lui. Soltanto contadini e montanari paiono a loro agio nel nuovo mondo post apocalittico, e Corona li mette in un piedistallo, facendone i nuovi padroni del mondo, quelli ai quali rivolgersi (con rispetto, e senza dargli troppo fastidio) per imparare a sopravvivere.

Lettura leggera, a tratti divertente, spesso comica, saltuariamente ripetitiva. Gradevole lo stile di scrittura, anche se a volte l’autore indugia un po’ troppo in elenchi e sinonimi.

Vale la pena affrontare la lettura di questo libro, consci del fatto che non si è di fronte a un capolavoro, aggettivo spesso utilizzato per definire altre opere di Corona. Un buon libro, insomma, niente di più e niente di meno.

Alessandro Bertante – Nina dei Lupi

Questo articolo è stato scritto originariamente il 16 aprile 2011 e oggi – aprile 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Viene facile accostare Nina dei Lupi di Alessandro Bertante a L’Uomo Verticale di Davide Longo. È stato d’altra parte lo stesso Bertante a omaggiare e allo stesso tempo prendere le distanze dal romanzo di Longo: “Ci sono delle assonanze con La Strada di McCarthy e il recente ‘L’uomo verticale’ di Davide Longo, ma il mio percorso è diverso, non è ‘classico’. Mi sono ispirato ad alcuni testi di antropologia culturale e alla mitologia dell’arco alpino, che ha un’origine addirittura neolitica*”. Un semplice lettore come me, invece, non può fare a meno di notare che i due romanzi, benché diversi, sembrano costruiti lungo la stessa linea temporale. Volendola sparare grossa si può dire che Nina dei Lupi può essere letto come il seguito de L’Uomo Verticale.
Il romanzo di Longo è ambientato nel bel mezzo della prima ondata di barbarie scatenatasi a seguito di sconvolgimento sociale che ha annichilito istituzioni e forze dell’ordine. Le vicende narrate da Bertante invece sembrano svolgersi qualche anno dopo ed hanno per protagonisti alcuni abitanti di un villaggio di montagna isolato dal resto del mondo. Un mondo ormai in rovina abitato da piccole comunità che, scendendo a compromessi con la loro natura pacifica, sono costrette a impugnare le armi e difendersi dalle bande di violenti.
Se quello di Longo è in prevalentemente un romanzo “on the road”, Bertante concentra l’azione in mezzo alla natura, tra le montane, con le sue leggende e i suoi riti ancestrali, gli stessi ai quali l’autore stesso fa riferimento nella citazione dell’intervista sopra riportata.
Altra differenza consiste nella natura stessa dei protagonisti: quello principale de “L’Uomo Verticale” è in fin dei conti una persona mite, un intellettuale decaduto con un passato di successo, che durante lo svolgersi degli eventi dovrà imparare a sopravvivere e a proteggere le persone a lui care, abdicando alla propria natura pacifica e passiva. I personaggi di Bertante, dalla psicologia ben delineata, hanno invece qualcosa di eroico e mitologico. Addirittura epico, tanto che, come ha fatto notare lo scrittore Giovanni Cocco nella sua recensione pubblicata su Carmillaonline.com, il romanzo riecheggia alcune atmosfere tipiche dei racconti fantasy**.
Riassumo in breve la breve la trama: a seguito di un cataclisma non meglio precisato che ha fatto mutare il colore del cielo e che ha sprofondato il pianeta (o quantomeno l’Italia) nell’anarchia e nella barbarie, alcuni abitanti del villaggio di Piedimulo vivono in perfetto isolamento, dopo aver distrutto l’unico passaggio agibile tra le montagne: soluzione estrema che non sarà sufficiente a fermare una banda di predoni incline alla violenza e al sadismo, composta da persone un tempo normali e appartenenti a un’umanità eterogenea, che col precipitare degli eventi hanno dato libero sfogo ai loro peggiori istinti. Il gruppo prenderà possesso del paese decimandone brutalmente la popolazione e schiavizzando i sopravvissuti. Tra questi una bambina in procinto di diventare donna, già scampata ai disordini scoppiati in città, che riuscirà a fuggire nel bosco fino a rifugiarsi presso una sorta di eremita con passato cittadino. Un solitario che vive di caccia e provviste nella sua baita in mezzo al bosco. Insieme a loro vivono i lupi, i veri padroni della montagna.
Benché nel complesso abbia preferito L’Uomo Verticale, anche Nina dei Lupi è un gran bel romanzo, finalista del premio Strega e dal buon riscontro di critica e pubblico.
Il romanzo è caratterizzato da un buon ritmo, è abbastanza breve e si legge tutto d’un fiato. Se proprio gli si vuole trovare qualche difetto, posso dire che a tratti Bertante indugia troppo su una narrazione di stile fiabesco, anche in quei passaggi che, per contro, meriterebbero una prosa maggiormente realista. Penso ad esempio al racconto dello scoppio delle violenze che fanno da preludio al crollo della civiltà. Altre parti invece, finale compreso, vengono liquidate troppo velocemente, senza l’approfondimento che avrebbero meritato. Ma sarebbe davvero il voler trovare il capello nell’uovo.

* Intervista pubblicata su affaritaliani.it, 2 marzo 2011, a cura di Antonio Prudenzano
** Recensione pubblicata su carmillaonline.com, 11 marzo 2011, a cura di Giovanni Cocco

Davide Longo – L’Uomo Verticale

Questo articolo è stato scritto originariamente il 21 maggio 2010 e oggi – aprile 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Ho letto L’Uomo Verticale nel maggio del 2010. All’epoca ancora non conoscevo l’opera di Davide Longo, bravo e giovane scrittore che aveva già ottenuto un discreto successo col romanzo storico Un Mattino a Irgalem e con il giallo “bucolico” Il Mangiatore di Pietre.
La scoperta de L’uomo Verticale la devo invece a una tempestiva recensione pubblicata da Giuseppe Genna nel suo Blog.
A costo di sembrare banale, non posso esimermi anch’io dal far notare, come hanno fatto tutti i recensori di quest’opera, che il romanzo di Longo somiglia a una sorta di prequel italico di The Road, il celebre capolavoro apocalittico scritto da Cormac McCarthy. Anche ne L’Uomo Verticale il protagonista è un padre che cerca di proteggere i figli dalle insidie di un mondo post apocalittico in preda alla barbarie. Come in The Road non si forniscono informazioni precise su quale catastrofe o quale sconvolgimento politico, economico o sociale abbia fatto precipitare gli eventi, chi o che cosa abbiano condotto l’Italia a diventare una terra in preda alla violenza, alla disperazione e al degrado. Qualcosa tuttavia s’intuisce: ad esempio sono chiari i riferimenti – una vera e propria profezia, considerato l’anno di pubblicazione – a un qualche evento catastrofico accaduto tra le repubbliche caucasiche, evento che ha determinato un’incontrollata migrazione via terra delle popolazioni originarie di quei luoghi. Nel romanzo sono chiamati Gli Esterni, denominazione che ricorda il retorico e politicamente corretto Migranti, termine da pochi anni utilizzato al posto dell’evidentemente pericoloso Profughi. Insieme a questo tragico evento, assistiamo all’evolversi di una crisi economica che affonda le proprie radici nei giorni nostri e che sfocia in un totale tracollo della società occidentale: Internet e le comunicazioni telefoniche smettono di funzionare, mentre tv e radio prima riducono i programmi per poi interrompere del tutto le trasmissioni. È sospesa l’erogazione di energia elettrica e interrotta la distribuzione dei carburanti. Bancomat e sportelli bancari non erogano più denaro contante. Le forze di polizia e l’esercito confluiscono in un unico corpo denominato Guardia Nazionale, chiamato a presidiare l’ordine pubblico e i confini territoriali. Continua a leggere

Tommaso Pincio – Cinacittà

Questo articolo è stato scritto il 4 settembre 2009 e oggi – marzo 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

La storia è ambientata nella Roma di un futuro non troppo lontano dal nostro presente, riarsa da un sole infuocato, in preda a una spietata crisi economica e invasa da immigrati cinesi, nuovi padroni della città e unico popolo che è riuscito ad adattarsi ai catastrofici sconvolgimenti economici e sociali.
Il protagonista è un disoccupato quarantenne che vive centellinando un piccolo patrimonio messo da parte con la liquidazione. Vinto dall’accidia, passa le notti in un locale di spogliarelliste asiatiche, bevendo un numero fisso di birre e lasciando che il tempo gli scorra davanti. Fino a quando un incontro con un affascinante cinese, personaggio oscuro dai modi occidentali, interrompe quella che il protagonista vive come una piacevole routine, e ce lo racconta lui stesso, in prima persona, mentre sconta in carcere una condanna a trent’anni per omicidio.
Quando scrissi la recensione di Cinancittà di Tommaso Pincio, nel settembre del 2009, fui colto da una sorta di “blocco del recensore”. Arrivato all’ultima pagina, mi trovai nella sgradevole situazione di non riuscire a capire se avevo avuto a che fare con una buona lettura o con qualcosa di facilmente dimenticabile.
Ricordo tra l’altro che impiegai un po’ di tempo prima di decidermi se acquistare questo libro. Dopo aver letto la sinossi, infatti, la storia mi sembrava poco interessante: generalmente non amo le vicende che hanno a che fare con omicidi passionali (motivo per il quale il protagonista si trova rinchiuso a Regina Coeli), e se vogliamo dirla tutta, il titolo alle mie orecchie suonava cacofonico.
L’unico motivo per cui mi decisi a leggere quello che era allora l’ultimo romanzo di Tommaso Pincio, era che, appunto, l’aveva scritto Tommaso Pincio, autore che avevo apprezzato con La ragazza che non era lei, e che ho amato dopo aver letto quello che considero uno dei migliori libri in lingua italiana pubblicati nel ventunesimo secolo: il bellissimo Un amore dell’altro mondo.
Ciò che più mi piace di Tommaso Pincio è il suo stile di scrittura: semplice, lineare, per nulla auto celebrativo, amaramente ironico. Sembra di leggere Kurt Vonneghut, più che Thomas Pynchon (lo so: Pincio ha già detto che il cognome che s’è dato ha a più che fare col colle romano, che col celebre scrittore postmoderno, ma non me la sento di credergli sulla parola).
Nel corso della lettura è facile intuire che molte delle vicende raccontate nel libro hanno un’origine autobiografica. Estrapolata dal contesto distopico, la monotona quotidianità del protagonista pare simile a quella di molti ex giovani italiani: intellettualmente dotati ma privi di stimoli. Sognatori ai margini di una società dove altre qualità rendono una persona interessante: l’aspetto fisico, la ricchezza, il carisma, la popolarità.
Tommaso Pincio è riuscito a emergere, a venirne fuori, perché lui è un vero artista. Ma quanti sono, quanti siamo, quelli rassegnati, quelli che non ce l’hanno fatta?

Tullio Avoledo, La Ragazza di Vajont

Questo articolo è stato scritto nel novembre 2008 e oggi – marzo 2016 – ripreso, rivisto e ampliato per la rivista online Adromeda.

Probabilmente non è il più originale, né il più diverte, tantomeno il più letto. Tuttavia, considero La Ragazza di Vajont il miglior romanzo scritto da Tullio Avoledo.
Seguendo un registro sottilmente cupo e poetico, Avoledo mette da parte il tipico e divertente cinismo che ha caratterizzato i personaggi delle sue opere precedenti, per raccontare la storia di un complice, un debole che sacrifica i propri ideali nella ricerca di un riscatto personale e di un appagamento delle proprie ambizioni, frustrate da una serie di eventi nefasti che la sua memoria non riesce a incasellare in un passato nebuloso. Una persona disposta a rinnegare le proprie idee e i propri valori al punto di vendere metaforicamente la propria anima al “diavolo”: il leader di un’Italia in rovina travolta dalla deriva reazionaria e xenofoba.
I temi trattati dallo scrittore pordenonese ricalcano più o meno quelli degli altri romanzi. In questo però le tematiche fantascientifiche (e più specificatamente quelle ucroniche) non vengono soltanto accennate come nei quattro precedenti (L’elenco telefonico di Atlantide, Mare di Bering, Lo Stato dell’Unione, Breve Storia di Lunghi Tradimenti) ma si integrano alla perfezione con la descrizione di una vicenda umana che vede il protagonista sedotto e ammaliato dalla femme fatale di turno; come negli altri romanzi troviamo infatti una sorta di Black Hair Girl di Dickiana memoria, anche se con i capelli biondi, meno cattiva e questa volta vittima – e non strumento – del potere. Ritroviamo un mondo dove le dittature fasciste hanno preso il sopravvento, come in una specie di seguito ideale de Lo Stato Dell’Unione, in un futuro alternativo nel quale fanno capolino alcuni elementi del nostro presente (e qui paiono nuovamente evidenti i riferimenti a P.K. Dick, scrittore letto e apprezzato da Avoledo). Continua a leggere

Mauro Baldrati – Fuga

fuga, di mauro baldratiDa anni seguo con interesse il sito carmillaonline.com, sito dedicato a “Letteratura, Immaginario e Cultura d’Opposizione“. Lo seguo soprattutto per gli articoli dedicati, appunto, a Letteratura e Immaginario, e per i graffianti racconti satirici di Alessandra Daniele, mentre non condivido buona parte dell’ideologia politica di fondo, appartenente all’area antagonista. Ma questo è secondario.
Il romanzo breve intitolato Fuga, di cui parlo in questa breve rencesione, è stato scritto da Mauro Bladrati, redattore di Carmilla. È liberamente scaricabile dal sito, e questa è cosa buona. Si tratta, per loro stessa definizione, di un “thriller avventuroso di fantapolitica“. Molto fanta, direi: il Partito Democratico, al potere in Italia ormai da molti anni, ha subito un’evoluzione dispotica, diventando partito unico e gettando l’italia in una feroce dittatura alla Salò e le 120 giornate di Sodoma. L’opposizione clandestina, più o meno organizzata, è composta dagli ex NoTAV, indetificati come fuorilegge e criminali, e sottoposti – quando catturati – a terribili e sadiche pene detentive.
A rigor di logica, se si considera che in Italia abbiamo avuto un ex socialista a capo di una feroce dittatura fascista, non possiamo escludere che l’attuale sinistra al potete possa incappare in tentazioni autoritarie, ma la piega presa dagli eventi narrati nel racconto di Baldarati pare eccessivamente caricaturale, enfatica e inverosimile. D’accordo che si tratta di satira sconfinante nell’allegoria, ma il risultato m’è parso poco convincente.
Se non altro, si legge velocemente.

Luca Doninelli, Le Cose Semplici

Ho scovato questo romanzo grazie a una ricerca su Google. Dallo scarso numero di recensioni su Amazon, oltre al fatto di non averne mai sentito parlare, deduco che probabilmente il libro non ha avuto successo commerciale. Poco male: leggo la sinossi e decido di scaricarne l’estratto. Fin dalle prime righe mi rendo conto che è scritto benissimo, in prima persona, con uno stile semplice ma non per questo “povero”. Leggo in rete che Luca Doninelli, giornalista che scrive su testate che solitamente non leggo, ha vinto in passato un Campiello e un Grinzane Cavour, il che non è detto sia una garanzia, ma insomma…
Finalizzo l’acquisto senza rendermi conto che si tratta di un mattone da 840 pagine. E per fortuna, aggiungo, altrimenti – spaventato dalla mole – avrei anche potuto lasciar perdere. Purtroppo non leggo più come una volta, e salvo vacanze e occasionali tempi morti, mandar giù 840 pagine leggendo esclusivamente a letto e seduto sulla tazza equivale a dire che ci vorrà un mese e mezzo per arrivare all’ultima pagina.
Eppure non s’è rivelata, tutto sommato, una lettura faticosa. Vero: su facebook mi è capitato di scrivere un “Ma che fatica!”, riferito alle prime 3/400 pagine, ma s’è trattato di un’esclamazione dettata dalla mia scarsa abitudine ad affrontare romanzi così lunghi, nulla più.
Il libro è scritto in forma di diario, con capitoli brevi e spesso scollegati l’uno dall’altro, se non con i rimandi affidati alla memoria del protagonista narrante.
Provo a sintetizzare la storia: ci troviamo in un futuro apocalittico – ambientato inizialmente a Milano e nella seconda metà in gran parte negli USA -, grossomodo a ventidue anni da oggi, in un futuro che fa i conti col crollo della civiltà dovuto alla progressione iperbolica dell’attuale crisi economica. Crisi che sfocerà in un progressiva quanto repentina interruzione delle trasmissioni audio e video, delle comunicazioni, dell’erogazione di elettricità, della disponibilità di petrolio e carburanti. Seguiranno un breve periodo in preda alla barbarie e una successiva stabilizzazione verso una convivenza pacifica ma non priva di rischi per i superstiti intenti a sopravvivere. Questa è l’ambientazione, ma il romanzo in realtà racconta soprattutto la storia d’amore tra il protagonista e un genio della matematica: una ragazza francese di famiglia strettamente cattolica, appena quindicenne nel giorno del loro primo incontro. Lui giovane laureato e lei già docente alla Sorbona. Storia d’amore che li condurrà all’altare non appena lei compirà diciotto anni, e interrotta pochi anni dopo dall’avverarsi improvviso dell’apocalisse.

“Ci fu un preciso momento (nessuno saprebbe dire quale) in cui quelli che avevano pensato di controllare il mondo decisero di mandarlo al diavolo”

Lei si ritroverà da sola negli Stati Uniti, e li darà il via a una sorta di utopia grazie alla quale la civiltà potrebbe continuare – forse – ad avere un futuro, mentre lui nel frattempo si trova a Milano, una città in rovina, tra orrori e barlumi di speranza. Qui inizierà a scrivere i suoi quaderni, nei quali racconterà le vicende della sua famiglia (romanzo nel romanzo), della sua relazione con una ragazza anch’essa conosciuta da bambina, figlia di una sua amante, e poi ritrovata adulta dopo l’apocalisse, con la quale concepirà un figlio: non l’unico…
Insomma, se vado avanti rischio di rivelare troppe cose, ma va detto che Le Cose Semplici non è un solo romanzo: sono tante storie, tante vite, tanti dialoghi sapientemente e magnificamente costruiti. Dialoghi che trattano di letteratura, religione, filosofia, politica. Dialoghi caratterizzati da una sottile ironia di fondo, a tratti spassosa.
Non è facile per me recensire questo libro: i temi trattati sono così tanti e così “importanti” che penso di non avere una preparazione culturale sufficiente per scriverne come si deve.
Ho letto qualche altra recensione de Le Cose Semplici. Qualcuno è arrivato a dire che è il romanzo italiano più importante del 2015. E siccome, nonostante l’autore non sia uno scrittore di genere, si tratta a tutti gli effetti di un romanzo di fantascienza distopica (ma anche, come già detto, utopica), mi sembra strano, molto strano, che nell’ambiente della SF nostrana non se ne sia parlato per nulla.
Dovreste rimediare.

PS: preso dall’entusiasmo mi sono scordato dei difetti, che pure ci sono. Uno su tutti il finale, carino ma non all’altezza del resto. E poi ho trovato eccessiva la brevità delle storie narrate nelle ultime cento pagine.

Nicolò Ammaniti, Anna

Chiariamolo subito: questa è Fantascienza. Dico questo perché sia l’Autore (comprensibilmente, poi spiego perché), sia tutti i recensori con la puzza sotto il naso hanno fatto di tutto per evitare di includere questo romanzo in quel genere narrativo che in Italia uccide sul nascere ogni speranza di successo commerciale: la Fantascienza, appunto. E mentre a uno scrittore che campa dalle vendite dei propri libri tale rimozione – più o meno inconscia – può essergli perdonata, non si capisce perché chi recensisce sui grandi quotidiani nazionali e in TV eviti di pronunciare la parola Fantascienza, quasi come una bestemmia in chiesa. Tipico atteggiamento marchettaro italiota, immagino. In aggiunta, qui da noi la SF, a parte quella nobile anglosassone, non se la fila nessuno, salvo qualche rara eccezione generalmente rappresentata dai soliti finti-intellettualoidi, quelli che citano Dick senza averlo mai letto.
Fine dell’introduzione polemica.
Ricominciamo daccapo: Anna è un romanzo di fantascienza distopica… molto bello, giudizio a bruciapelo che mi sento di spendere subito. La storia è ambientata in Sicilia, un futuro indistinguibile dal nostro presente. Una variante del virus dell’influenza, che causa una malattia mortale chiamata la Febbre Rossa, ha apparentemente sterminato l’intera popolazione adulta del pianeta. Dico apparentemente perché i sopravvissuti, tutti giovani ragazzi e bambini, immuni al contagio fino alla pubertà, ignorano cosa ci sia dall’altra parte dello stretto. Ciò che è certo è non esiste più l’energia elettrica e di conseguenza non funziona qualsiasi forma di comunicazione basato sulla tecnologia. La protagonista, Anna, insieme a suo fratello Astor e all’amico Pietro, cercheranno di attraversare la Sicilia, evitando le comunità di violenti ragazzini adoratori della Picciridduna, sorta di divinità feticcio dai poteri miracolosi, e il branco di bambini cacciatori ancora più piccoli e dal linguaggio primitivo.
Anna di Nicolò AmmanitiNel lungo viaggio on the road attraverso l’isola sicula, Anna, coraggiosa e determinata come la quasi omonima Hanna cinematografica interpretata da Saorsie Ronan, dovrà ricorrere a tutte le sue forze per sopravvivere in un modo di macerie e violenza, difendere il fratello psicologicamente debole, e cercare di sbarcare in terra di Calabria, alla ricerca di qualche “adulto” o di quello che, rivelatole segretamente, potrebbe essere il bizzarro antidoto alla Febbre Rossa.

Il libro è lungo il giusto e si legge bene, e non viene mai voglia di interrompere la lettura. Un certo umorismo fa da sfondo alla vicenda, a tratti drammatica e mai volgare. Il finale è molto bello, da pelle d’oca. Infine, l’hanno detto tutti e lo dico anch’io, evidenti sono i riferimenti al Signore delle Mosche di Golding e a The Road di McCharty. Aggiungo una curiosità: a un certo punto c’è un passaggio nel romanzo che sembra copiato spudoratamente da una scena del film The Signs, di M. Night Shyamalan. Ma credo di averlo notato soltanto io…

Paolo Zardi, XXI Secolo

Da qualche tempo mi sto dedicando alla ricerca e alla lettura di quei romanzi distopici che prevedono un’evoluzione più o meno apocalittica dell’attuale crisi economica. Ne ho letto diversi: Nina dei Lupi, di Alessandro Bertante, Metropoli, di Massimiliano Santarossa, La Caduta, di Giovanni Cocco (il più realista del lotto), La Fine del Mondo Storto, di Mauro Corona, e per certi versi Sottomissione di Houellebecq. E ne sto dimenticando qualcuno. Ma il migliore in assoluto rimane per me L’Uomo Verticale, di Davide Longo, letto prima di tutti gli altri.
Una banale ricerca su Google mi ha portato alla recensione pubblicata sul Fatto Quotidiano di questo XXI Secolo, di Paolo Zardi, scrittore che non conoscevo, nonostante proprio con questo romanzo sia stato candidato allo Strega (ammetto di non seguire le kermesse letterarie con particolare attenzione, comunque).
Il romanzo di Zardi è ambientato in un futuro non molto lontano dal nostro presente, anche se si accenna ad alcune evoluzioni geopolitiche secondo me abbastanza improbabili nell’immediato (Brasile potenza imperialista e nucleare, Cina e Russia ai ferri corti e sull’orlo di una guerra, Stati Uniti ridimensionati al ruolo di comprimari).
L’economia, manco a dirlo, è allo sfascio totale, tanto che improvvisi e pericolosi black out della durata di qualche giorno colpiscono a caso intere regioni, gettandole nottetempo in preda alla barbarie.
In questo paesaggio dipinto a tinte fosche, caratterizzato da periferie urbane decadenti, senso di pericolo costante, ritorno alla pena di morte e gatti che spariscono chissà perché, si muove l’anonimo protagonista del racconto: un venditore porta a porta di depuratori d’acqua, sposato con Eleonore, una bella donna di origine austriaca, e padre di due figli, un bambino e una ragazza poco più che adolescente.
A inizio racconto, con una tipica apertura in media res, veniamo a sapere che Eleonore è stata colpita da un ictus fulminante, che la riduce in un coma profondo apparentemente non definitivo. Il protagonista si trova pertanto ad dover gestire, oltre alla sofferenza dovuta alla situazione drammatica della moglie, che indubbiamente ama, tutte le problematiche connesse al dover portare avanti il lavoro, prendersi cura dei figli e seguire da vicino la situazione clinica della consorte.
Tragedia nella tragedia, irrompono nella scena un mazzo di chiavi di provenienza sconosciuta e un cellulare nascosto nel cassetto della biancheria. Dentro la memory card del cellulare, reso inaccessibile dalla presenza di un codice pin, si trovano una serie di foto pornografiche che ritraggono Eleonore in compagnia di uno sconosciuto. La tragedia si fa dramma, umano e sentimentale, e da qui inizierà la ricerca di una verità nascosta, e di un viaggio in parte on the road e in parte interiore, dove degrado, situazioni pericolose e un’opprimente senso d’angoscia metteranno a dura prova la salute fisica e mentale del protagonista.
Gran bel romanzo, scritto benissimo e con un finale commuovente. Da leggere, per amanti del genere e non.