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Tommaso Pincio, Panorama

Dico subito che Tommaso Pincio ha scritto di meglio. Oltre al suo capolavoro, l’inarrivabile Un Amore dell’Altro Mondo, anche La Ragazza Che Non Era Lei e Cinacittà* mi sembra gli siano venuti meglio.
Tuttavia, se sono riuscito a leggere Panorama in pochissimo tempo, soffrendo di astinenza ogni volta che dovevo interrompere la lettura, non posso che ritenere anche questo romanzo l’ennesima prova riuscita dello schivo autore romano.
Mettiamola così: Pincio scrive maledettamente bene e non è mai banale. In più è impossibile non farsi piacere la sua riconoscibile e sottile ironia, caratterizzata da quell’impalpabile e altrettanto riconoscibile velo malinconico.
In Panorama, Pincio veste i comodi panni del biografo di Ottavio Tondi, lettore di professione e (ennesimo) alter ego letterario dell’autore.
Seguiremo le singolari vicende del protagonista che finirà per rinchiudersi nel social network orweliano Panorama, dove si innamorerà di Ligeia Tissot: bellissima e sfuggente ragazza o, come il nome lascerebbe intendere, parto della fantasia del protagonista?
Questa in estrema sintesi la trama del romanzo, anche se, a dirla tutta, i veri protagonisti della vicenda sono i libri, che Ottavio Tondi legge in continuazione, a casa sua o davanti alle telecamere TV, sempre allo stesso modo: in silenzio e comodamente seduto nel suo divano; da solo o in compagnia di una ragazza che, pagata per l’occasione, aggiunge emozioni decisamente carnali a quel puro esercizio intellettuale.
Chi conosce l’opera di Pincio non tarderà a scorgere in Panorama tutta una serie di vicende e personaggi già raccontati nei suoi precedenti romanzi. Le protagoniste femminili (la cui caratterizzazione, in questo Panorama, viene un po’ trascurata), le avventure erotiche, la strisciante depressione del protagonista, l’amore per l’arte e la letteratura, il tedio, l’accidia, le droghe, Roma… tutte cose già lette nei tre romanzi suddetti.
In fondo Pincio parla sempre di se, ma lo fa divinamente.

* Aggiungerei alla lista anche Hotel A Zero Stelle, che però non è un romanzo.

Luca Doninelli, Le Cose Semplici

Ho scovato questo romanzo grazie a una ricerca su Google. Dallo scarso numero di recensioni su Amazon, oltre al fatto di non averne mai sentito parlare, deduco che probabilmente il libro non ha avuto successo commerciale. Poco male: leggo la sinossi e decido di scaricarne l’estratto. Fin dalle prime righe mi rendo conto che è scritto benissimo, in prima persona, con uno stile semplice ma non per questo “povero”. Leggo in rete che Luca Doninelli, giornalista che scrive su testate che solitamente non leggo, ha vinto in passato un Campiello e un Grinzane Cavour, il che non è detto sia una garanzia, ma insomma…
Finalizzo l’acquisto senza rendermi conto che si tratta di un mattone da 840 pagine. E per fortuna, aggiungo, altrimenti – spaventato dalla mole – avrei anche potuto lasciar perdere. Purtroppo non leggo più come una volta, e salvo vacanze e occasionali tempi morti, mandar giù 840 pagine leggendo esclusivamente a letto e seduto sulla tazza equivale a dire che ci vorrà un mese e mezzo per arrivare all’ultima pagina.
Eppure non s’è rivelata, tutto sommato, una lettura faticosa. Vero: su facebook mi è capitato di scrivere un “Ma che fatica!”, riferito alle prime 3/400 pagine, ma s’è trattato di un’esclamazione dettata dalla mia scarsa abitudine ad affrontare romanzi così lunghi, nulla più.
Il libro è scritto in forma di diario, con capitoli brevi e spesso scollegati l’uno dall’altro, se non con i rimandi affidati alla memoria del protagonista narrante.
Provo a sintetizzare la storia: ci troviamo in un futuro apocalittico – ambientato inizialmente a Milano e nella seconda metà in gran parte negli USA -, grossomodo a ventidue anni da oggi, in un futuro che fa i conti col crollo della civiltà dovuto alla progressione iperbolica dell’attuale crisi economica. Crisi che sfocerà in un progressiva quanto repentina interruzione delle trasmissioni audio e video, delle comunicazioni, dell’erogazione di elettricità, della disponibilità di petrolio e carburanti. Seguiranno un breve periodo in preda alla barbarie e una successiva stabilizzazione verso una convivenza pacifica ma non priva di rischi per i superstiti intenti a sopravvivere. Questa è l’ambientazione, ma il romanzo in realtà racconta soprattutto la storia d’amore tra il protagonista e un genio della matematica: una ragazza francese di famiglia strettamente cattolica, appena quindicenne nel giorno del loro primo incontro. Lui giovane laureato e lei già docente alla Sorbona. Storia d’amore che li condurrà all’altare non appena lei compirà diciotto anni, e interrotta pochi anni dopo dall’avverarsi improvviso dell’apocalisse.

“Ci fu un preciso momento (nessuno saprebbe dire quale) in cui quelli che avevano pensato di controllare il mondo decisero di mandarlo al diavolo”

Lei si ritroverà da sola negli Stati Uniti, e li darà il via a una sorta di utopia grazie alla quale la civiltà potrebbe continuare – forse – ad avere un futuro, mentre lui nel frattempo si trova a Milano, una città in rovina, tra orrori e barlumi di speranza. Qui inizierà a scrivere i suoi quaderni, nei quali racconterà le vicende della sua famiglia (romanzo nel romanzo), della sua relazione con una ragazza anch’essa conosciuta da bambina, figlia di una sua amante, e poi ritrovata adulta dopo l’apocalisse, con la quale concepirà un figlio: non l’unico…
Insomma, se vado avanti rischio di rivelare troppe cose, ma va detto che Le Cose Semplici non è un solo romanzo: sono tante storie, tante vite, tanti dialoghi sapientemente e magnificamente costruiti. Dialoghi che trattano di letteratura, religione, filosofia, politica. Dialoghi caratterizzati da una sottile ironia di fondo, a tratti spassosa.
Non è facile per me recensire questo libro: i temi trattati sono così tanti e così “importanti” che penso di non avere una preparazione culturale sufficiente per scriverne come si deve.
Ho letto qualche altra recensione de Le Cose Semplici. Qualcuno è arrivato a dire che è il romanzo italiano più importante del 2015. E siccome, nonostante l’autore non sia uno scrittore di genere, si tratta a tutti gli effetti di un romanzo di fantascienza distopica (ma anche, come già detto, utopica), mi sembra strano, molto strano, che nell’ambiente della SF nostrana non se ne sia parlato per nulla.
Dovreste rimediare.

PS: preso dall’entusiasmo mi sono scordato dei difetti, che pure ci sono. Uno su tutti il finale, carino ma non all’altezza del resto. E poi ho trovato eccessiva la brevità delle storie narrate nelle ultime cento pagine.

Aaron Karo, Mi Chiamo Chuck

Ok, forse sto esagerando nel dar retta ai consigli di Amanzon. Attirato dalla sinossi, dal basso costo e dal fatto d’essermelo visto proporre diverse volte per email, mi sono lasciato convincere a comprare la versione ebook di questo romanzo dell’esordiente (e quindi sconosciuto) Aron Karo.
Chuck è il nome del protagonista, giovane americano all’ultimo anno di liceo. Chuck è uno sfigato, il tipico esempio di ragazzo “non-mi-si-fila-nessuno” protagonista di migliaia di filmetti made in USA, e in quanto tale viene snobbato da cheerleader e ragazze “popolari” (tra le quali sua sorella, che detesta), e vessato dai bulletti/atleti con il Q.I. prossimo allo zero ma con le ragazze di cui sopra prostrate in adorazione. Il miglior amico di Chuck è anch’esso un emarginato sparaballe con quale passare pomeriggi interi pomeriggi a giocare ai videogame. Insomma: tutti i classici luoghi comuni di quel tipo di cinema, al netto di sesso, sbronze, canne e droghe varie che invece in questo romanzo non compaiono mai, o quasi.
Per quale motivo allora mi sono convinto a leggere e (MIODDIO) finire questo libro? Perché Chuck, nella sua sfiga cosmica, è affetto da sindrome da disturbo ossessivo compulsivo, e per tanti motivi le storie che vedono per protagonisti adolescenti con problematiche psico fisiche hanno sempre catturato la mia attenzione.
Il disturbo costringe Chuck a comportarsi in modo bizzarro, il che non si esaurisce soltanto nel lavarsi le mani compulsivamente (tipico sintomo del disturbo OC). Come veniamo a sapere fin dalle prime righe, Chuck ha un quaderno dove tiene il conto delle pippe che si spara, e lo dice esattamente in questi termini. Controlla il gas una quindicina di volte prima di prendere sonno, anche se a casa sua in cucina hanno le piastre elettriche. Indossa soltanto All Star di colori diversi, uno per ogni stato d’animo.Aron Karo,  Mi chiamo Chuck I sintomi, esposi sempre in tono fin troppo leggero e mai melodrammatico, si aggravano a tal punto per cui si renderà necessario l’intervento di una psichiatra. Nel frattempo Chuck si innamora follemente di una nuova compagna di scuola (altro luogo comune tipico di quei film: quello della famiglia errante che costringe i figli a cambiare scuola e amici), che cercherà di conquistare senza rivelarle le sue imbarazzanti manie. Riuscirà nel suo intento?
Il libro l’ho letto in pochissimo tempo, e se ci si fa piacere il linguaggio da teenager, i luoghi comuni abusati e la banalizzazione delle situazioni drammatiche, bè (sorpresa!): alla fine si rivela una lettura piacevole. Non scherzo.

Massimiliano Santarossa, Metropoli

Sarò poco originale, ma anch’io non posso fare a meno di sostenere, come hanno fatto altri recensori, che questo romanzo deve molto, moltissimo, alle distopie della prima metà del secolo scorso: Orwell, Huxley, Bradbury e Zamjatin. Non solo, durante la lettura ho colto evidenti rimandi alla fantascienza sociologica degli anni 60/70, alla Herry Harrison per intenderci, con chiari riferimenti ad alcune tematiche del romanzo Largo! Largo!, dal quale è stato tratto il cult con Charlton Heston “2022: I sopravvissuti“.
La storia.
A seguito di un catastrofico collasso produttivo, usa sorta di evoluzione iperbolica dell’attuale crisi economica, il mondo è piombato in un’irreversibile dissesto ambientale e sociale. La temperatura media del pianeta è crollata, gli stati e le istituzioni sono collassati, la maggior parte delle specie viventi estinte. Sopravvivono nella miseria e nella barbarie pochi esseri umani, tormentati dal freddo e dalla fame.
Unica speranza per chi tenta di sopravvivere è quella di raggiungere la città fortificata di Metropoli. Continua a leggere

Umberto Eco, Numero Zero

Aiuto! Devo recensire un romanzo di Umberto Eco, nientepopodimeno che… E già parlare di recensione mi fa arrossire, quantomeno. Da quando ho deciso di mettere per iscritto in questo blog le impressioni (ecco: forse parlare di “impressioni” è più appropriato) che ricavo dai libri che leggo, non posso certo evitare di farlo con quei pochi autori importanti (e difficili) che raramente decido di affrontare.
Umberto Eco è innegabilmente uno di questi, tranne che per questo romanzo, devo constatare, con mia enorme sorpresa.
Soltanto distrattamente Il Nome della Rosa, secoli fa, e divorato il Pendolo di Focault (in meno di una settimana) qualche anno dopo, le mie letture di Eco si sono fermate a questi due romanzi, e alle Bustine di Minerva che pubblicava sull’Espresso. Poi basta. Provai un certo interesse per Il Cimitero di Praga, ma rimandandone in continuazione l’acquisto ho finito per rinunciare alla lettura. E così ci ho riprovato con questo Numero Zero, aspettandomi le dissertazioni filosofiche, le citazioni dotte e le trame intricate che caratterizzavano gli altri due romanzi. Continua a leggere

Efe Tobunko, Risoluzione 23

Sarò banale, ma neanch’io posso esimermi dal far notare quanto questo romanzo breve ricordi, per stile e tematiche, le migliori storie cyberpunk degli anni 90′.
In molti hanno paragonato Efe Tobunko, talentuoso e ramingo scrittore africano, di cui non avevo mai sentito parlare, al miglior Gibson, con forti rimandi alla fantascienza distopica di Orwell e Huxley. Personalmente, forse per via della narrazione in prima persona, ci vedo qualcosa di G.A.Effinger, quello della trilogia del Budayeen e del Gattino di Schrödinger, e mi fermo qui coi paragoni.
La storia è ambientata in un futuro non troppo lontano, nel quale immani sconvolgimenti climatici hanno trasformato gran parte della Terra in un pianeta freddo e inabitabile. Soltanto nella fascia compresa tra i due tropici le temperature consentono la sopravvivenza della razza umana, e proprio a Lagos, città più grande del mondo e capitale di una Nigeria tecnologica e sviluppata, si muovono i protagonisti del racconto. Continua a leggere

Matthew Dicks, L’amico immaginario

Comprai questo libro qualche anno fa, appena uscito. Non ne avevo mai sentito parlare, ma l’avevano esposto nel reparto novità/best seller, reparto che passo in rassegna ogni volta che mi trovo in libreria. Difficilmente mi faccio catturare da tali proposte. Anch’io, con lo sguardo schifato come il Giacomino di Tre uomini e una gamba, normalmente mi sposto alla ricerca del mattone polacco minimalista di scrittore morto suicida giovanissimo, oppure nel reparto Fantascienza, o in quello Libri Strani. Quella volta invece la sinossi pubblicata nella quarta di copertina attirò la mia attenzione, e così comprai il libro, rifilandolo sadicamente a mia moglie, la quale lo divorò in tre giorni, nonostante le quasi 400 pagine di lunghezza. In teoria l’avrei dovuto leggere anch’io, ma tra una lettura arretrata e l’altra me ne dimenticai. Non solo, lo rimossi totalmente dalla mia memoria, al punto che mi sono ritrovato ad acquistarlo in formato ebook su Amazon (anche questa volta attirato dalla sinossi e dal costo di un paio di euro), senza di ricordarmi di averlo a disposizione nella versione cartacea.
Non ho la più pallida idea di chi sia l’autore, tale Matthew Dicks, per il quale non esiste una pagina dedicata su wikipedia, ne in italiano ne in inglese. Allo stato attuale, so soltanto che è il giovane insegnante autore di questo libro.
Un bel libro, lo dico subito. Non certo un capolavoro, e neanche il massimo dell’originalità, ma comunque una buona lettura. Perché non lo ritengo originale? Perché si da il caso che qualche anno fa abbia letto “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon: storia di un bambino autistico affetto dalla sindrome di Asperger, che si trova ad affrontare una complessa indagine, nonostante i limiti imposti dalla sua malattia, ma che riuscirà a risolvere grazie alle sue incredibili qualità mnemoniche e matematiche.
L’amico immaginario è per certi versi simile, ma il protagonista narrante non è il bambino autistico, bensì il suo amico immaginario di nome Budo.
Ora, o è un caso, oppure Budo deve qualcosa a Boda, amico immaginario d’infanzia di Kurt Cobain, al quale curiosamente indirizza la lettera che scrive prima di suicidarsi. E lo stesso Boda immaginato dal leader dei Nirvana è protagonista e voce narrante del capolavoro di Tommaso Pincio “Un amore dell’altro mondo”.
Coincidenze, forse.
Budo è l’amico immaginario di Max, bambino affetto da autismo ad alto funzionamento, un bambino apparentemente uguale a tutti gli altri (per il padre è soltanto “un po’ lento”, convinzione che lo porta a scontrarsi con la moglie, madre premurosa e perfettamente consapevole dei problemi del figlio), ma con alcune delle limitazioni tipiche dei disturbi dello spettro autistico: goffaggine, manie e fobie, incredibile capacità di concentrazione, problemi nell’interazione col prossimo, comportamenti stereotipati, impossibilità di comprendere l’umorismo, le frasi fatte, le metafore, tendenza a chiudersi in se stessi e rifugiarsi in una realtà interiore. Di questa realtà fa parte Budo, del tutto simile a un bambino normale, che non può essere visto dalle altre persone, ma che può comunicare e interagire con gli altri amici immaginari, quelli che un po’ tutti i bambini si costruiscono (immaginandoli in fattezze perlopiù bizzarre) e che presto abbandonano, condannandoli a “sparire” non appena si rendono conto che si tratta di un prodotto della loro fantasia.
Budo, da questo punto di vista, è un’eccezione, perché molto più longevo e definito, e molto intelligente per giunta. Non solo, Budo è relativamente autonomo, e questa sua caratteristica, unità alla sua innata curiosità, lo porta spesso ad allontanarsi da Max, in brevi scorribande che lo vededo attento osservatore dei luoghi e delle persone che ruotano intorno al suo “immaginante”.
Budo sa bene che prima o poi Max smetterà di immaginarlo, e ciò lo rende molto “umano” nella sua voglia di vivere, seppur in un mondo col quale non può interagire. Ma queste sue angosce vengono messe da parte da un fatto terribile. Max viene rapito, e Budo non riesce a seguirlo. Cercherà in tutti modi di trovarlo e, limitatamente alla sua condizione di essere immaginario, proverà ad aiutarlo a mettersi in salvo. Ci riuscirà?
Libro che si legge tutto d’un fiato, scritto e tradotto bene, e che vedrei bene come soggetto di un film di Zemeckis. Consigliato.

Nicola Skert, Hitorizumo

Provo una certa difficoltà a recensire questo romanzo. Primo: perché mi è capitato di scambiare qualche parola con Nicola Skert via Facebook, e questa seppur risicatissima conoscenza rischia di compromettere il mio giudizio (sono fatto così…). Secondo: perché ho fatto una gran fatica ad arrivare alla fine del romanzo, ma gli ultimi capitoli valgono da soli l’intera lettura. Terzo: perché l’idea alla base della storia è ottima, e alcune trovate sono davvero geniali. Purtroppo però devo dire che alcuni difetti (o quelli che io soggettivamente reputo tali) rischiano di rovinare il tutto.
E parliamo subito di questi difetti, che poi stringi stringi è uno soltanto: i dialoghi. Troppo innaturali, artificiosamente brillanti, ricchi di battute spiritose ma che non fanno ridere, che vorrebbero essere cinici o sarcastici, senza riuscirci, anzi, che sembrano presi dalle pubblicità alla TV per quanto paiono forzati.
Peccato, perché al netto di questo grave difetto (e di qualche refuso qua e la), il romanzo è scritto davvero bene, e molte descrizioni vengono rese in maniera magistrale, anche se la soglia tra il racconto e lo spiegone viene lambita in più di un’occasione (senza peraltro mai tracimare in infodump logorroici).
La storia: improvvisamente la Terra piomba nel buio. Un buio impenetrabile e apocalittico, per il quale non esiste apparentemente una spiegazione scientifica. Un’oscurità sinistramente preannunciata da misteriose ombre che furtivamente, senza mai rivelarsi del tutto, sfiorano il campo visivo dei protagonisti.
Presto l’umanità si troverà a combattere contro il gelo polare dovuto al brusco calo termico, la totale assenza di luce e energia, gli incendi, i fumi tossici e le bande di gente comune in preda al panico o, peggio, a una incontrollabile follia omicida.
Paolo, un giovane meteorologo accompagnato dal suo amico Mirco, cercherà di raggiungere sua moglie Angela e il loro figlio Giulio, barricati tra le mura domestiche insieme a Luca, un amico e vicino di casa reso psicologicamente instabile dall’improvvisa scomparsa della luce. Sarà un viaggio difficile, pericoloso e drammatico, ma dopo il ricongiungimento qualcosa cambierà…
Basta, il rischio di rovinare la sorpresa nel lettore che si appresta a leggere Hitorizumo è alta, pertanto mi limito a dire che la trama non è soltanto quella da me sommariamente riportata. È altro, molto altro.
Un romanzo da leggere, e soprattutto da finire. Fidatevi.

PS: In appendice al romanzo vengono riportati alcuni studi scientifici che sviluppano l’ipotesi alla base del racconto, ossia l’improvviso spegnimento (o oscuramento) del sole. Purtroppo non si tratta di articoli divulgativi, e alla seconda equazione ho iniziato a perdere il filo. Peccato, perché l’argomento è interessante, ma per come viene trattato sembra rivolto a studiosi e accademici, non a appassionati di narrativa fantastica.

Ernest Cline, Player One

Nella versione cartacea questo libro è un mega spiegone galattico da 640 pagine. Per i non addetti ai lavori (non che io lo sia), lo spiegone è il MALE: sia in ambito narrativo, dove a volte è complicato farne a meno, sia in ambito cinematografico, dove invece le immagini dovrebbero raccontare tutto, o quanto basta. Dicesi “spiegone” quella spiegazione lunga, pedante e spesso fuori luogo che molti scrittori della domenica (e purtroppo tanti di questi riescono a diventare famosi) usano per illustrare senza troppe complicazioni il contesto storico nel quale si svolgono le vicende che vengono narrate. E questo è il difetto numero 1.
Il difetto numero 2 sono proprio le 640 pagine della versione cartacea. Una bella sforbiciata gli avrebbe fatto bene, e menomale che l’ho letto su ebook, altrimenti la mole eccessiva l’avrebbe presto condannato a sparire tra gli scaffali della mia libreria.
C’è anche un difetto n. 3: l’irritante linguaggio adolescenzial/fanciullesco dei protagonisti, ricco di “come butta?”, “amigo”, “fottiti”, “cazzone” e via involvendo.
Fine dei difetti? No, ce ne sono altri, ma a questo punto devo spiegare perché nella recensione di Amazon ho assegnato a questo romanzo tre stelle su cinque.
Ready Player One era la scritta che compariva a inizio partita nei videogiochi cabinati degli anni ottanta, dopo aver inserito il gettone o la monetina. Nel titolo della versione italiana del romanzo è stata inspiegabilmente eliminata la parola Ready, e questo è un crimine vero e proprio, visto che Player One da solo non se lo ricorda nessuno. Andiamo avanti. Ambientato nel 2044, in un futuro dove l’attuale crisi economica è diventata una fantamegacrisi economica, l’umanità anziché perdere tempo su Facebook e Twitter, spreca la propria esistenza su OASIS: una sorta di Second Life/Social Network immersivo dove ci si muove con il proprio avatar in mezzo a pianeti che riproducono fedelmente i mondi virtuali contenuti in videogame, film, telefilm, fumetti. In pratica quello che Zukenberg vuole fare di Facebook dopo aver comprato Oculus Rift. Non solo, OASIS è anche scuola, economia, finanza… Insomma, ci gira praticamente di tutto.
Il creatore di OASIS, James Halliday, è una sorta di Jobs/Zukemberg/Page/Brin/Gates un po’ meno affascinante e un po’ più strano, se possibile (un nerd che più nerd non si può), cresciuto tra mille complessi in QUEGLI anni 80. Nei miei anni 80. L’autore è un classe 72, un anno più grande del sottoscritto, e come il sottoscritto ha passato l’infanzia davanti alla TV o giocando ai videogame, visto che il mondo di fuori era una merda (o così me lo ricordo/se lo ricorda). E così delle 640 pagine almeno 320 sono di citazioni anni ’80, ed è questo il punto forte del libro, la terza stelletta oltre alle due che avrebbe meritato. Le citazioni riguardano Film, Telefilm, Manga, Sit-Com, Fumetti, Videogames, Computer e console, storia dell’informatica, pubblicità e tutta quella paccottiglia pop anni ’80 per la quale ancora oggi andiamo matti.
Il protagonista e narratore è Wade Watts (dal nome allitterante come di solito si usa per gli eroi dei fumetti, come giustamente fa notare), un adolescente orfano e povero che vive in un cumulo di container con la zia che l’ha adottato soltanto per intascarsi i contributi sociali. E mentre nel mondo reale Wade è NIENTE, su OASIS invece è Pazifal, un esperto di videogame che partecipa come “Gunter” al concorso indetto dal suo eroe, proprio quel James Halliday creatore di OASIS che, in quanto adolescente negli anni 80, ne ha mutuato tematiche e citazioni per organizzare una caccia al tesoro che mette in palio tutto il suo patrimonio, OASIS compreso. A ostacolare la caccia di Wade/Parzifal e dei suoi amici Aech, Daito, Shoto e della misteriosa blogger Art3mis, di cui Wade è follemente innamorato, i cattivissimi e stereotipati “Sixers” capitanati dall’irritante e altrettanto stereotipato Nolan Sorrento. Ricchi e cattivi contro poveri e simpatici, come da tipica retorica yankee.
Lo spessore drammatico della vicenda è decisamente impalpabile però, miracolo, alla fine si tratta di un libro divertente, e che incredibilmente si riesce a digerire per tutte le 640 pagine, manco fosse scritto da Tom Clancy.
Un cenno sull’autore, Enrest Cline: perlopiù sconosciuto, ha sceneggiato il film Fanboys (che ho visto: carino) e ottenuto fama internazionale grazie a questo Ready Palyer One, romanzo che le case editrici si sono contese a suon di rilanci ancora prima che venisse ultimato. In America funziona così: si investe sulle idee. Ovviamente la storia è stata opzionata per il grande schermo, e Cline ne curerà la sceneggiatura. Difficile che ne venga fuori qualcosa di buono, ma non si sa mai.

Davide Longo, Il caso Bramard

Con questo romanzo Davide Longo torna nel suo Piemonte, tra le colline e le montagne viste e vissute ne “Il mangiatore di pietre” e, marginalmente, ne “L’uomo verticale“, e lo fa raccontandoci la storia di un ex commissario, un uomo tormentato che abbandona la polizia dopo la tragedia subita per mano del serial killer al quale dava la caccia.
Rifugiatosi in un paese di montagna, Corso Bramard mette a frutto i suoi studi facendo l’insegnate part time in una scuola superiore, mentre trascina la sua esistenza in una dimensione bucolica e priva di modernità e tecnologia, imponendosi sofferte e rischiose arrampicate notturne. Una vita austera dove regnano solitudine e silenzio.
Fino a quando il suo antagonista si materializza nuovamente con una lettera misteriosa, l’ultima di una lunga serie di missive scritte con un’Olivetti del 72, che a differenza delle altre volte contiene un indizio. Un invito a riprendere le indagini che Corso Bramard non può lasciarsi sfuggire.
Corso Bramard è il solito personaggio al quale Davide Longo ci ha ormai abituati: un orso introverso e di poche parole e poche pretese, allo stesso tempo ruvido e sentimentale. Un alter ego dello scrittore, verrebbe da dire. La vicenda si svolge, come detto, tra le colline piemontesi, i quartieri bene di Torino e il villaggio silenzioso nel quale il protagonista si è rifugiato. Parallelamente, in un’alternanza regolare di capitoli, vengono svelati origine e intenti del misterioso serial killer.
A fare da contorno alla storia troviamo un commissario un po’ macchietta, una poliziotta emarginata che ricalca la Lisbeth Salander di “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson, potenti famiglie dalle strane abitudini e i soliti montanari burberi e dai modi spicci che Longo ha raccontato in altri suoi scritti.
E la natura. Una natura vissuta, raccontata e sentita, fatta di descrizioni che somigliano a piccole istantanee, di rumori e silenzi che Davide Longo sa farti sentire come pochi altri.
Un buona buona lettura, non c’è altro da aggiungere.